La testa nel muro e l’oste chiacchierone

Testina piazza Navona, palazzo Tuccimei - De CupisSai che a Roma… in pochi notano questa piccola testa di marmo affacciata su piazza Navona?

La testa si trova sulla parete di Palazzo Tuccimei (ex palazzo de Cupis), già noto per la storia della mano fantasma. Bisogna guardare con attenzione, perché è facile che che questo piccolo volto di marmo bianco che sporge dal muro passi inosservato.

Ma cosa ci fa lì? Per alcuni sarebbe semplicemente la testa di un fantasma, ma in realtà la leggenda popolare racconta una storia diversa. Si dice infatti che nel Cinquecento papa Sisto V fosse solito accantonare i suoi abiti pontifici per mescolarsi alla folla e spiare cosa la gente pensasse realmente di lui. Un giorno, fermatosi in un’ osteria in piazza Navona, ebbe modo di sentire, da parte dell’oste, parole molto poco lusinghiere nei propri confronti. Il povero oste fu fatto subito decapitare. I bottegai della piazza, in ricordo dell’episodio e dell’oste, vollero porre la testina sul muro.

Oggi la testa è ancora lì: qualcuno pensa che voglia essere un ammonimento a non parlare in modo sconsiderato. E se invece ci volesse ricordare il coraggio di chi è morto pur di non rinunciare alla libertà di espressione? Punti di vista…

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Palazzo Tuccimei, già Ornani, già de Cupis

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Sai che a Roma… c’è una mano fantasma?

La storia della mano è legata a quella di Palazzo Tuccimei (ex de Cupis), una delle tante meraviglie di piazza Navona a cui si rischia di non prestare attenzione. Il lato posteriore del palazzo è visibile a destra della chiesa di sant’Agnese (guardando la facciata). L’edificio oggi ospita un bar-ristorante piuttosto in voga, ma una volta, nel Settecento e nell’Ottocento, qui aveva sede un famoso teatro dei burattini, il teatro Ornani (poi Emiliani), con le rappresentazioni dei pupi siciliani, che a Roma venivano dette infornate.

Stemma della famiglia de Cupis con ariete rampante

Stemma della famiglia de Cupis

La nascita del palazzo, però, risale al XVI secolo, quando Giandomenico de Cupis (nominato cardinale nel 1517) ampliò le proprietà che la famiglia aveva nell’area di piazza Navona già dal secolo precedente (quando da Montefalco si era trasferita a Roma), formando così l’attuale complesso. Lo stemma della famiglia de Cupis, caratterizzato da un ariete rampante, è ancora visibile sulla facciata del palazzo prospiciente via S. Maria dell’Anima, scolpito a bassorilievo sul grande portale bugnato.

Secondo le cronache seicentesche di Antonio Valena, uno dei pronipoti di Giandomenico sposò, nei primi anni del secolo, la giovane nobildonna Costanza Conti, famosa per la sua bellezza e soprattutto per quella delle sue mani, graziose e delicate. In un’epoca in cui i social network e gli allegati multimediali non esistevano ancora, un semplice ma pur sempre efficiente passaparola bastò a rendere quelle mani famosissime, al punto che l’artista Bastiano, che aveva il suo studio in via dei Serpenti (ed era pertanto chiamato “Bastiano alli Serpenti”) volle fare un calco in gesso di una di esse ed esporlo nella sua bottega, sopra un prezioso cuscino di velluto. Grande era la folla che, non potendo ammirare di persona le mani della donna, si recava a contemplare almeno la loro fedele riproduzione.

Un giorno anche un frate domenicano, predicatore in San Pietro in Vincoli, passando da quelle parti rimase affascinato da tanto splendore e commentò l’opera dicendo che quella mano era così bella, che se fosse stata di una persona reale avrebbe corso il rischio, per gelosia, di essere tagliata da qualcuno! La frase divenne celebre, e arrivò anche alle orecchie di Costanza, che effettivamente era la “persona reale” in questione! La donna ne rimase molto impressionata, soprattutto per il fatto che era stato un frate a pronunciarla, e lei, fortemente religiosa, si convinse che aver accettato di far realizzare il calco della sua mano, fosse stato un grave peccato di vanità.

Per espiare questa colpa e per timore della predizione, decise di rinchiudersi nel suo palazzo. Precauzione inutile, perché un giorno, mentre era intenta a ricamare, si punse un dito con l’ago; la ferita si infettò, e il dito iniziò ad andare in cancrena, finché i medici non furono costretti ad amputarle la mano ormai deforme. Forse a causa del dolore per quella perdita, forse, più probabilmente, a causa di una setticemia conseguente all’amputazione, la bella Costanza morì poco dopo.

Nelle notti di luna piena la sua mano, pallida e bellissima, continua ad apparire dietro uno dei vetri al primo piano dell’antico palazzo, lungo via di S. Maria dell’Anima. Il fantasma della donna, invece, sembra che faccia fugaci apparizioni lungo i muri della strada: secondo alcuni tenta invano di ricongiungersi alla sua mano, mentre per altri cerca semplicemente di vivere la vita che, dopo la segregazione in casa, non ha mai vissuto.

Negli anni a seguire, il palazzo continuò comunque ad essere celebre: infatti i de Cupis affittarono l’immobile a vari personaggi, sempre altolocati, e il diarista Spada ci racconta che tra questi, il principe Bozzolo, amante del gioco, lo trasformò, nella prima metà del XVII secolo, in una sorta di bisca clandestina. A confermarlo è anche un Avviso di Roma ufficiale:
 
Erasi da molti anni introdotto in Roma un abuso assai pregiuditievole al Buon Governo, et era che gli Ambasciatori Regi facevano tenere gioco pubblico o biscazza con darne gli utili ad alcuni famigliari, che l’affittavano poi ad altri per somme assai considerabili, onde nasceva che molti artisti, dediti al gioco, abbandonavano l’arte, vendevano tutti gli arnesi di casa et ornamenti delle mogli loro. Altri commettevano furti, anche qualificati, con sacrilegio, per fare in qualunque modo danari per giocare, et in capo all’anno tutto ciò che perdevano con la rovina delle proprie mani, andava in mano ai biscazzieri. Et essendo stato tollerato quest’abuso forse senza saputa dei Padroni, non poté fare a meno il governatore di dar conto che il Principe di Bozzolo, ambasciatore Imperiale, haveva aperto gioco in piazza Navona, nella casa dei de Cupis, dove egli habitava, il che pareva tanto maggior scandalo, in quanto che il sito era pubblico. Diede perciò ordine che fossero carcerati quelli che vi andavano a giocare e fu prontamente eseguito con qualche amaretudine del Sig. Ambasciatore, che si doleva della partialità, cioè che fosse tollerato ad altri quello che con tanto rigore si negava a lui. Promise non di meno di levar il gioco; ma vedendo che non si prendeva rimedio quanto agli altri, conforme gli era stato promesso, tornò anch’egli a far giocare, ma con segretezza.
 
Prima di estinguersi, i de Cupis si imparentarono con gli Ornani, che nel 1817 vendettero ai Tuccimei una porzione del palazzo. In breve tempo, ila famiglia finì per acquisire tutto il palazzo .Oggi una sola Tuccimei è rimasta ad abitare una parte dell’edificio.
 
A Palazzo Tuccimei è legata anche un’altra storia, riferita questa volta alla piccola testa di marmo visibile sul lato del palazzo che affaccia su piazza Navona.
 

Peccato che nun ce sii l’impiccato!

Forca-patibolo-tortura-impiccagione-impiccati-Giovanni-Sercambi-2Sai che a Roma… con l’espressione “peccato che nun ce sii l’impiccato” si indicava una bella giornata, quasi perfetta, in cui però l’unico elemento mancante era lo spettacolo gratuito di una “bella” impiccagione? 

Le esecuzioni capitali facevano parte delle attrazioni che la Roma papalina offriva ai romani, viandanti o pellegrini, i quali, oltre a visitare i monumenti dell’antichità classica e i luoghi di culto, potevano provare emozioni forti grazie allo spettacolo del boia. Era così forte il gusto sadico della plebe romana nell’assistere alle “giustizie” (così erano chiamate le esecuzioni capitali), che queste erano considerate vere e proprie feste. In una stessa giornata era poi possibile assistere anche a numerose esecuzioni, intervallate da esibizioni di saltimbanchi e giocolieri.

impiccagioneL’uccisione del condannato al patibolo rispondeva all’esigenza, da parte delle autorità, di punire il colpevole in maniera esemplare, in modo tale da rappresentare un monito per tutti i cittadini. L’impiccagione era solo uno dei tanti metodi previsti. Tra i molti altri metodi diffusi c’erano la decapitazione,  la lapidazione, l’impalamento, la ruota, il rogo, solo per citarne alcuni.

Le esecuzioni erano talmente frequenti che i patiboli erano parte integrante dell’arredo urbano delle principali piazze. I luoghi principali dove avvenivano le  esecuzioni capitali  erano Piazza Campo de’ Fiori, Piazza Navona, il Campidoglio, Ponte Sant’Angelo, o le carceri con annessi tribunali di Tor di Nona e la scomparsa Corte Savella.

Così il Belli ricorda l’impiccagione di Camardella, condannato a morte  nel 1749, colpevole dell’omicidio di un prete da cui era stato frodato. L’esecuzione  era avvenuta quasi un secolo prima e il ricordo dell’evento era ancora vivo nella memoria dei romani. Belli non aveva assistito al fatto, ma lo racconta come se lo avesse vissuto in prima persona, con gli occhi di un ragazzino:

 

Il Ricordo

 

Er giorno che impiccorno Gammardella

io m’ero propio allora accresimato.

Me pare mó, ch’er zàntolo a mmercato

me pagò un zartapicchio[1] e ’na sciammella.[2]

Mi’ padre pijjò ppoi la carrettella,

ma pprima vorze gode[3] l’impiccato:

e mme tieneva in arto inarberato

discenno: «Va’ la forca cuant’è bbella!».

Tutt’a un tempo ar paziente Mastro Titta[4]

j’appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene [5]

un schiaffone a la guancia de mandritta.

«Pijja», me disse, «e aricordete bbene

che sta fine medema sce sta scritta

pe mmill’antri[6] che ssò mmejjo de tene».[7]

 

 

1 Un balocco che salta per via d’elastici.

2 Ciambella.

3 Volle godere.

4 Il carnefice è a Roma conosciuto sotto questo nome.

5 Me.

6 Altri.

7 Te.