Giuseppe Mazzini e l’emigrazione ciociara a Londra

Sai che a Roma… il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana (MEI), al Vittoriano, offre importanti spunti di riflessione sui flussi migratori nel (e dal) nostro Paese?

Un interessante articolo inviatoci gentilmente  dal professor Michele Santulli ci aiuta a ripercorrere alcune tappe di un fenomeno così strettamente correlato alla nostra Storia e ci svela aspetti poco noti della vicenda umana di Giuseppe Mazzini, il quale intervenne personalmente in soccorso dei tanti bambini italiani emigrati a Londra nel corso del XIX secolo.

“Entrare nel Museo Naz. Emigrazione al Vittoriano a Roma è come entrare in una sala da ballo: luci psichedeliche, musichette, macchinette video: vi trovi tutto e in sostanza non vi trovi nulla o quasi: un museo ‘nazionale’ dove curiosamente si fa iniziare la emigrazione solo dopo il 1870*: emigrazione certamente, quella postunitaria, ma ancora di più un esodo, una diaspora, e non solo italiana, massimamente al di là dell’oceano; quasi una invasione, come è successo e sta succedendo ancora oggi. La molla è sempre la medesima: fame e miseria. Ma emigrazione può essere ed è anche qualcosa di altro: non solo ricerca del pane ma anche, e a volte solamente, avventura, pionierismo, volontà di scoperta, una nuova patria, col sussidio di sacrifici enormi, di rinunce, pericoli. E’ il lontano occidente americano, il Far West, divenuto un mito e un paradigma; è la Terra Promessa degli Ebrei che fuggono dall’Egitto, L’emigrazione trae origine da molte motivazioni e impulsi diversi.

L’emigrazione autentica è quella che inizia cento anni prima del 1870. E questo fu la emigrazione dalla Valcomino: è vero, fame, miseria, aumento delle bocche da sfamare, soprusi e violenze dei signorotti e non solo, situazione non più sopportabile ma anche avventura, spirito libertario, aspirazione e nostalgia di una patria nuova e di un mondo nuovo e migliore: un flusso continuo iniziato alla fine del 1700 e riversatosi nell’altra parte del territorio, cioè verso le Paludi Pontine, verso Terracina, Anzio, Nettuno e le cittadine sulla Via Appia, in particolare Velletri e, allo stesso tempo, verso Roma e verso le Alpi. E di questa autentica epopea vogliamo rammentare una componente, la più terribile, quella della vera e propria “tratta dei bambini”: i genitori che, in cambio di un po’ di soldi, affittavano, o vendevano, i loro figli (normalmente per un periodo di tre anni) a dei personaggi, i cosiddetti ‘padroni’, che si industriavano per portarli nelle grandi città, soprattutto in Francia ed Inghilterra, dove li obbligavano ai mestieri più umili e duri: lustrascarpe, venditori per le strade di statuette di gesso e di santini o di altre immagini o di fiammiferi, sguatteri, facchini, mendicanti, suonatori di organetto, spazzacamini, in certe fabbriche, senza cure, senza pulizia, alloggiati in tuguri infimi, nella promiscuità e abiezione più ripugnanti. Un diplomatico italiano calcolò che di cento di questi infelici bambini, che verso la metà dell’Ottocento nella sola Inghilterra ammontavano a circa tremila, un cinquanta per cento moriva per le privazioni e gli stenti, un trenta per cento riusciva a fuggire e a liberarsi e un venti per cento proseguiva l’attività di sfruttamento appresa dai padroni. E questi bimbi malfamati, sporchi e laceri per le vie di Londra rappresentavano un motivo di continua umiliazione e cruccio per i benpensanti e anche per gli organi dello Stato: Londra a quell’epoca, come anche oggi, era, come si dice, l’ombelico del mondo, la capitale del Commonwealth, una città ricca e perciò tale contingenza umana saltava particolarmente agli occhi: le età di questi sfortunati bimbi andavano dagli otto ai quattordici anni circa. Già Londra si era occupata di tale problema dei propri bambini alcuni anni prima grazie alle denunce puntuali di Charles Dickens attraverso i suoi famosi articoli e libri, ed aveva provveduto alla eliminazione della piaga, ma ora si trovava di fronte quella rappresentata dai giovanissimi immigrati italiani, provenienti in quantità maggiore da alcuni paesini sperduti sulle montagne della Valcomino e in particolare da certe frazioni di Picinisco e di Villalatina o delle Mainarde oggi molisane. A quell’epoca nessuno conosceva la Valcomino, questo territorio appartato di Alta Terra di Lavoro che veniva confuso regolarmente con il concetto di ‘Abruzzi’. E fu un personaggio della Storia d’Italia, ancora non compreso pienamente nel suo alto valore e nel suo significato a seguito di una storiografia non di rado parziale e partigiana, Giuseppe Mazzini, che unico e solo e per primo si occupò fattivamente di questa infelice umanità abbandonata, preda dello sfruttamento e della disperazione. Tutti sanno che il patriota fu costretto all’esilio a Londra già dal 1837 e vi rimase per oltre trenta anni, fino al 1868, quattro anni prima della fine. E guardandosi attorno, a poco a poco capì e si rese conto del fenomeno dello sfruttamento e della violenza cui venivano sottoposti questi bimbi abbandonati. E perciò decise di offrire loro l’unica arma possibile per un riscatto autentico e per l’affrancamento: l’istruzione, la cultura. E quindi a costo di ulteriori rinunce personali e con il sostegno di personaggi inglesi della cultura e dell’arte coi quali nel frattempo era entrato in contatto quali lo storico Thomas Carlyle, i poeti Robert Browning e Algernon Swinburne, la vedova del poeta George Byron, il filosofo John Stuart Mill ed altri, fondò una scuola per questi bambini che venne aperta il 10 novembre 1841, data anche questa da non dimenticare nella storia della emigrazione italiana soprattutto e principalmente ciociara. Questa stessa data, tra l’altro, documenta e prova l’anacronismo dei motivi ispiratori del suddetto Museo Nazionale della Emigrazione. La scuola sorse in una zona a quell’epoca tra le più degradate di Londra a Hatton Garden, poi trasferita in una strada vicina, a contatto con il quartiere di Clerkenwell, abitato quasi esclusivamente da Italiani, specie ciociari, e dove in quegli anni sorse anche una chiesa italiana, la chiesa di San Pietro (1869-71), oggi ancora sul posto. La scuola fondata da Giuseppe Mazzini si svolgeva solo la sera e vi si insegnavano le discipline indispensabili all’apprendimento basilare. Le lezioni si svolgevano anche la domenica e in questo giorno impartiva le sue lezioni di cultura italiana lo stesso Giuseppe Mazzini. La scuola fu seguita e patrocinata anche da Charles Dickens che ben conosceva i luoghi dove aveva ambientato anche qualche sua opera quale per esempio ‘Oliver Twist’: non è escluso che frequentassero la scuola anche i modelli che a quell’epoca iniziavano ad arrivare a Londra quali Angelo Colarossi e Alessandro De Marco, entrambi di Picinisco. La scuola ebbe una lunga vita, sempre frequentata e seguita sia dagli alunni sia dai promotori, durò venti anni. Ogni ricorrenza del dieci novembre gli alunni e i promotori e gli insegnanti si riunivano e festeggiavano l’avvenimento. Se si desidera conoscere più approfonditamente questa pagina di storia anche ciociara, allora raccomando la lettura di un libretto scritto nel 1999 da un ricercatore della Università di Pisa, il Prof. Michele Finelli: “Il prezioso elemento. Giuseppe Mazzini e gli emigranti italiani nella esperienza della scuola italiana a Londra”.

E dire che nella Ciociaria frusinate, a riprova ulteriore del degrado culturale e morale che l’attanaglia, non mi pare che vi sia un qualcosa, una via o una piazza, che ricordi gli emigranti ciociari e la loro lunga epopea per le vie del mondo.”

Michele Santulli
*Per completezza di informazioni vogliamo precisare che il Museo Nazionale dell’Emigrazione dedica, in realtà, una parte del percorso espositivo alle emigrazioni pre-unitarie, ma tale sezione appare piuttosto limitata, anche a causa della mancanza di puntuali dati statistici per l’epoca.

Le palle dei Romani

Palla di cannone nella chiesa di San Bartolomeo all'Isola Tiberina

Palla di cannone nella chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina

Sai che a Roma… c’abbiamo le palle?

A Roma alcune palle di cannone sono state conservate e sono considerate preziosi reperti storici.

La  prima è la cosiddetta “palla del miracolo“, visibile all’interno della chiesa di San Bartolomeo all’Isola (l’Isola è quella tiberina, ovviamente, e, a prescindere dalla palla di cannone, vale davvero la pena di farci un salto!). Vanta un diametro di 14 cm e fu sparata dai Francesi (a Roma chiamati Franzosi!) nel tentativo di mettere fine all’esperimento della Repubblica Romana del 1849. Partita dalla via Aurelia, la cannonata si abbattè contro la chiesa, attraversando il muro e finendo la sua corsa sull’altare della Cappella della Vergine. Il tutto avvenne in un momento in cui la chiesa era affollatissima, ma fortunatamente non ci furono vittime (ecco perché “palla del miracolo”). Il proiettile è stato murato nella parete sinistra della Cappella e ad esso è stata aggiunta una epigrafe commemorativa.

Un’altra palla, anch’essa sparata dai Francesi, andò invece a schiantarsi sulle scale di marmo del Salone d’Onore di Palazzo Colonna ed è visibile visitando la Galleria. In questo caso pare che essa, sparata dal Gianicolo, sia entrata da una finestra aperta.

Palla di cannone sul fianco di sinistro di San Pietro in Montorio al Gianicolo (via Garibaldi)

Palla di cannone sul fianco di sinistro della chiesa di San Pietro in Montorio.

Palla di cannone all'ingresso di Villa Pamphili

Palla di cannone all’ingresso di Villa Pamphili.

Ma ci sono ulteriori “regalini” lasciatici dai Francesi nel 1849, come ci ha segnalato su Facebook l’amica Marina Fiorenti. Uno è la palla di cannone commemorata da una targa sul fianco sinistro della chiesa di San Pietro in Montorio, lungo via Garibaldi. Ha qualcosa di perverso, a pensarci bene, il fatto che l’eroe dei due mondi, titolare della strada, debba continuare a convivere con questo cimelio della battaglia che infranse il sogno della Repubblica Romana!
Altri due proiettili (sparati nel corso della stessa battaglia, ma non necessariamente dai Francesi!) si trovano invece nel travertino a sinistra del cancello d’entrata di Villa Pamphili. L’ingresso in realtà fu realizzato dall’architetto Andrea Busiri Vici nel 1861-63, quindi dopo la battaglia del Gianicolo e dopo che quella che all’epoca dell’assedio era Villa Corsini fu annessa a Villa Pamphili. Queste due palle, quindi, sono effettivamente risalenti alla battaglia, ma non si trovano nel preciso punto di… atterraggio! Secondo i Monteverdini, se esprimi un desiderio toccando una palla di Villa Pamphili, esso si realizzerà. Vale la pena di andare a provare: nella peggiore delle ipotesi, ci avrai guadagnato una bella passeggiata!

Portone di Villa Medici

Il portone di Villa Medici

Ritroviamo una palla di cannone anche a Villa Medici, sul Pincio. A sparare, in questo caso, pare sia stata la regina Cristina di Svezia, ma le motivazioni dell’incauto gesto sembrano avere origini discusse (ma sempre pertinenti a un carattere non propriamente facile della sovrana!): per alcuni la cannonata sarebbe stata un modo per manifestare la propria insofferenza di fronte al ritardo di un ospite che la regina stava aspettando e che doveva arrivare proprio da Villa Medici. Secondo un’altra versione, piuttosto accreditata, Cristina e il suo amico (forse amante…) cardinal Decio Azzolino avevano appuntamento a Villa Medici, ma il cardinale non si fece vedere. La regina allora, furiosa per il trattamento ricevuto (mai dare buca a una donna…!), si recò sulle terrazze di Castel Sant’Angelo e, da uno dei numerosi cannoni, sparò un colpo liberatorio verso la Villa! Per qualcuno, ancora, all’origine della cannonata sarebbero stati dei contrasti non meglio specificati creatisi tra la sovrana e la famiglia Medici. Infine, si dice anche che il colpo sia stato sparato, sempre da Cristina, in occasione di un appuntamento con il pittore Charles Errand: Cristina, pur essendo in ritardo, avrebbe trovato un modo speciale per dire all’amico che non si era dimenticata del loro incontro e, anzi, per manifestare la sua presenza nonostante si trovasse ancora piuttosto lontana (del resto, all’epoca non c’erano mica i cellulari…!).  La palla sparata sarebbe la sfera marmorea che oggi fa da ornamento alla fontana seicentesca posta di fronte alla Villa (oggi sede dell’Accademia di Francia). In realtà, anche ammesso che la palla marmorea fosse rimasta integra nonostante l’impatto, nessuno dei cannoni in uso nel XVII secolo a Castel Sant’Angelo aveva una gittata tale da poter sparare un proiettile così pesante a 1,5 km di distanza. Sta di fatto però, che se andiamo a guardare il portone bronzeo di villa Medici (sì, è ancora quello originale!), noteremo un’ammaccatura alquanto singolare…!

Palla di cannone nelle Mura Aureliane di Roma

Palla di cannone nelle Mura Aureliane

Per finire, un altro cimelio bellico si può individuare lungo le mura Aureliane, in Corso d’Italia, incastonato nella muratura della torre di fronte a via Po. Questa volta il contesto storico è quello dell’annessione di Roma al Regno d’Italia, nel 1870, con la dura battaglia tra l’esercito regio e quello pontificio, conclusasi con la famosa Breccia di Porta Pia. A distinguersi, durante lo scontro, non furono solo gli eroi del Risorgimento, ma anche le nostre mura: progettate per resistere ad assedi di entità ben minore, riuscirono a resistere all’artiglieria pesante per circa 5 ore!

Per dire la verità, un’altra cannonata andrebbe menzionata… però la palla di cannone non c’è più. A Palazzo De Carolis, in via del Corso, su una parete del cortile un’iscrizione ricorda il punto in cui, ancora durante l’assedio francese del 1849, arrivò una cannonata: UN COLPO DI CANNONE FRANCESE / LANCIO’ UNA PALLA IN QUESTO / LUOGO IL GIORNO 20 GIUGNO 1849 / ALLE ORE 3 3/4 POMERIDIANE / DEL CALIBRO DA 24. Anche se il proiettile è sparito, l’impronta è stata comunque raffigurata! La lapide invece fu fatta posizionare nel 1893 dal principe Ignazio Boncompagni Ludovisi, allora proprietario del palazzo.

Federica Macca ci segnala poi che a Roma è presente anche una fontana dedicata alle palle di cannone: